La pelle dell’orso: la durezza della vita e la meraviglia della natura nel film di Marco Segato
La pelle dell’orso non è solo un trofeo di caccia né semplicemente un simbolo della fine della paura per una comunità assediata da questo animale. La pelle dell’orso è metafora della durezza della vita in montagna, specialmente se siamo negli anni Cinquanta e il paesaggio è quello bello ma aspro dello scenario dolomitico della val di Zoldo. Siamo nel Veneto di montagna, poco conosciuto dai turisti e tanto amato dai propri abitanti. Un paesaggio pericoloso come l’orso ma anche forte e morbido come la sua pelle, per chi vi abita. Questo racconta il bel film di Marco Segato, anche lui veneto ma padovano, con la partecipazione della comunità di tutto il bellunese, dal feltrino all’agordino, sino al ruolo principale, quello del cacciatore, interpretato da quel Marco Paolini, di Belluno, rinomato a livello nazionale soprattutto per il suo teatro civile, a partire dalla tragedia del Vajont. Un’altra storia di montagna, un’altra vallata del bellunese.
La trama del film è semplice: Pietro Sieff, per una scommessa azzardata, va alla caccia dell’orso che terrorizza una piccola comunità (le scene di paese sono state girate a Fornesighe, una frazione dello Zoldano rimasta più delle altre immune dai cambiamenti della modernità e per questo ancora più bella) e alla fine si ritrova accompagnato, suo malgrado, dal figlio Domenico, testardo e tenace come il padre. Come gli uomini di montagna devono essere, d’altronde. E la caccia si trasforma in un viaggio figurato, attraverso le vicende del passato che hanno cambiato la vita dei due protagonisti, prima tra tutte la morte della donna, madre del giovane e moglie di Sieff, avvenuta in circostanze poco chiare. E la lotta finale con l’orso è solo lo scioglimento finale di una matassa, rivelatasi più complicata per le vicissitudini umane che per la vera e propria battuta di caccia. Per questo il film è bello. Perché è semplice ma non scontato. Semplice come lo era la vita di sessant’anni fa, di una semplicità che faceva rima con povertà, eppure una povertà onesta, considerata da un punto di vista etico. Quello della “Pelle dell’orso” è un mondo che non c’è più, fatto di ritmi di vita basati sulle stagioni e di rispetto reciproco sulla base di un rapporto sano con l’ambiente naturale. Questo mondo se n’è andato, oppure resiste in sparuti luoghi non ancora (fortunatamente!) toccati dall’arrogante invadenza umana e dalla cafonaggine di tutti i parvenu del nuovo millennio; perché gli ultimi cinquant’anni hanno cambiato più le cose degli ultimi due secoli. E uno di questi spazi preservati è appunto il paesaggio della val di Zoldo, vicino al più conosciuto Cadore, luogo dove appunto vanno a rifugiarsi e a scappare orsi e uomini di un tempo.