Intervista alla Galleria Mary Mary di Glasgow
Helen Johnson (1979) è un’artista il cui significato si scopre andando a cercare dietro le sue tele. Ad Art Basel 2016 la galleria Mary Mary di Glasgow con sede in Dixon Street le ha dedicato una mostra personale nel suo stand. Abbiamo intervistato la direttrice Hannah Robinson.
Da dove deriva il nome della galleria?
Il nome della galleria è un omaggio a due importanti donne del passato Mary Wollstonecraft e Mary Shelley, madre e figlia, la prima pioniera femminista e autrice del celebre manifesto A Vindication of the Rights of Woman (1792), la seconda scrittrice del celebre romanzo gotico Frankestein; or, the modern Prometheus (1818). Mary Shelley aveva solo 19 anni quando cominciò a scrivere; leggere della sua vita mi ha reso entusiasta soprattutto per la grande libertà di cui era portatrice. Poi, sono venuta a conoscenza della madre ed ho subito sentito che entrambe sarebbero diventate le mie custodi.
Perché ha scelto di partecipare ad Art Basel con una personale di un’artista australiana come, appunto, Helen Johnson? Mi piacerebbe che mi parlasse di lei…
Helen Johnson è al contempo un’artista, un’insegnante e una scrittrice, lavora principalmente a Melbourne e si definisce anzitutto una “pittrice figurativa”. Le sue produzioni artistiche si rifanno al formato delle immagini prodotte e fruite su Instagram o Tumblr, disconnesse, cioè, da un qualsivoglia discorso o sequenzialità. Il suo intento è quello di utilizzare la pittura per aprire nuovi spazi di contemplazione che il fruitore è invitato ad indagare attraverso un puro coinvolgimento dei sensi. Coinvolgimento, questo, che porta inevitabilmente all’astrazione, la quale però non può scindersi dalla realtà poiché è frutto della realtà stessa. Helen Johnson utilizza l’improvvisazione durante la produzione dei suoi lavori, proprio perché l’ambiguità, la casualità e la confusione sono caratteristiche primarie del reale.
I suoi acrilici sono molto grandi e sottolineano i limiti del corpo umano di fronte all’opera d’arte. Tutte le sue opere pendono dal soffitto quasi ad indicare il predominio delle stesse rispetto al corpo. L’artista utilizza sempre colori tenui ed è sua abitudine scrivere sul retro dell’opera parole, frasi che possono risultare utili per una sua maggiore comprensione: come «Australia – wealthy, spacious – takes only 13,750 refugees per year […] history vs. occurrence» (Australia – ricca, vasta – accoglie soltanto 13,750 rifugiati all’anno […] storia vs. contingenza). Vi è, dunque, una grande attenzione nei confronti del fruitore.
Qual è il significato delle quattro opere esposte e perché sono state disposte in maniera tale da formare un cubo rivolto verso l’interno?
Il contenuto delle quattro opere deriva da frammenti di film australiani che sono andati perduti insieme ad immagini di cartoni animati, questi ultimi spesso ricorrenti nella produzione artistica della pittrice. Ci sono elementi che descrivono l’industrializzazione del continente australiano e si rifanno a un immaginario collettivo i cui protagonisti sono i colonizzatori dell’Australia, i quali costrinsero le popolazioni autoctone a modificare le proprie abitudini. Le sneakers sono un collegamento evidente con l’attualità mentre le mani troppo bianche non vogliono essere un motivo di esclusione delle popolazioni aborigene ma una presa di coscienza della sua generazione nei confronti della storia e della sua verità.
Potrebbe dirmi il price range delle quattro opere esposte?
Certamente. Le due opere più grandi, vale a dire Stock e McCubbin redux, di 290 x 240 cm costano 17.700£. L’altra opera più piccola Empire play di 280 x 214 cm ha il medesimo prezzo di Or else che è stata venduta alla cifra di 16000£.
> Veronica Chiarenza