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“Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”: il film di Roy Andersson vincitore del Leone d’Oro a Venezia

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Un piccione conturbante. Per altri terrificante. Queste sono soltanto due delle diverse e numerose impressioni che l’ultimo film di Roy Andersson può suscitare nello spettatore. Anche il titolo stesso risulta stravagante (anche se il regista dice d’essersi ispirato a una tela di Bruegel Il Vecchio). Fatto sta che la pellicola, recentemente premiata con il Leone d’Oro alla Mostra veneziana, pur nella sua singolarità, presenta un taglio cinematografico assolutamente accattivante.

Il film si presenta innanzitutto come una lunga carrellata di quadri d’ambiente, ognuno dei quali incentrato sui diversi aspetti della quotidianità di una società occidentale e dei suoi abitanti: un bar con i suoi avventori, una palestra con giovani impegnati nella danza, un ristorante con ampie vetrate e clienti sorridenti e divertiti, e altro ancora. La società in questione è quella nordeuropea, svedese nello specifico, con strade e ambienti pulitissimi e asettici, con una freddezza e un’igiene da ambienti ospedalieri e una corrispondente aridità emotiva che non lascia spazio a forme di complicità né di fraternità intima tra i vari individui, limitandosi a concedere soltanto momenti di passeggera empatia collettiva. È lo stesso torpore che contraddistingue il rapporto di lavoro e di amicizia tra gli unici veri due protagonisti di questa pellicola, due anonimi signorotti che girano vari punti vendita della città per proporre maschere e scherzi di carnevale dal loro catalogo (in realtà, poi scopriamo essere due pazienti di una struttura per pazienti con disagi psichici). Una situazione ironica e provocatoria, in quanto i due uomini incarnano nelle loro figure proprio quella tristezza e quella malinconia che i loro articoli vorrebbero per l’appunto scacciare: articoli, d’altronde, che tutti gli acquirenti interpellati si rifiutano di comprare.
I due venditori, però, non sono gli unici personaggi. Segue nel corso della storia una rassegna di uomini e donne che, con il loro modo di essere, rappresentano uno stato dell’umanità in senso lato: dalla delusione amorosa al fallimento, dalla solitudine a un finto interesse per le vicende altrui, dall’egoismo alla mancanza di un vero e proprio spirito di cameratismo anche negli ambienti che sarebbero più propensi a stimolarlo: si vede allora un uomo che si presenta sempre puntuale agli appuntamenti ma sempre puntualmente si ritrova da solo al luogo d’incontro perché non avvisato della disdetta; un’insegnante di danza che s’invaghisce del proprio allievo più bravo e ne viene sempre respinta sentimentalmente; un bar dove si avvicendano tanti avventori ma tutti se ne stanno emarginati, abbandonati alla propria solitudine del tavolo e del bicchiere. Si tratta insomma di un’allegoria di tutti i disagi di una società moderna perfettamente funzionante ma al contempo perfettamente alienante, sino a veri e propri sketch caratteristici del teatro dell’assurdo: eccoci allora presentati alcuni passeggeri in attesa alla fermata del tram che si interrogano sul senso esistenziale di un mercoledì della settimana. Queste situazioni, poi, sono raccontate cinematograficamente con l’utilizzo della telecamera fissa, a dare un senso di concreta oggettività alla narrazione ma anche per cristallizzare questi attimi in pose senza tempo né movimento.

Eppure, in tutto questo, da tale mondo quasi imprigionato e racchiuso in un’enorme bacheca da vetro (come il piccione del museo di scienza, nella scena iniziale che apre il film) sfuggono attimi reali e di una spontaneità che si presentano come le uniche manifestazioni di un’umanità che resiste, nonostante tutto, al processo di modernizzazione e di fossilizzazione delle relazioni e dei rapporti. Sono sequenze brevissime che spezzano il racconto, a manifestare quegli impulsi più belli e istintivi che trapelano invece da un’automatizzazione sempre più dominante: ecco allora due giovani abbracciati lungo la spiaggia a scambiarsi carezze, sotto lo sguardo incuriosito del loro cane che aspetta impazientemente di essere portato a spasso; ecco un uomo che fuma alla finestra una sigaretta, dopo aver fatto l’amore con la propria donna, che si affaccia poi assieme a lui alla finestra, abbracciandolo teneramente. Ed ecco di nuovo quello stesso bar, che fino ad ora era stato il luogo di raccolta della solitudini esistenziali, diventare in una sequenza un luogo di fratellanza e di spontanea amicizia. Si fa un salto indietro nel tempo, al 1943 (proprio l’anno di nascita dello stesso Andersson): l’inquadratura è sempre la solita ma in questo caso cambia l’atmosfera. Il locale è pieno, specialmente di soldati. La guerra è in corso, i militari sono sprovvisti di denaro, l’atmosfera è contrassegnata dalla tristezza. Allora la donna del locale, quasi una locandiera, decide di distribuire a tutti un bicchiere di liquore chiedendone in cambio solo un bacio. L’atmosfera cambia, prevalgono gioia e canto, quasi a interrompere il clima di mestizia prevalente sino a quel momento. Insomma, un frangente bello, di spontaneità e di puro scambio reciproco, anche affettivo. Ma, alla fine, sono pochi questi momenti di trasparenza a spezzare il grosso della routine e della quotidianità, contrassegnate, invece, da meschinità, delusioni, invidie ed egoismi. Insomma a spezzare quel nonsense che sembra essere il tratto distintivo dell’uomo sulla terra. Non solo in Svezia. Non solo nel Nordeuropa. Ma in tutto il pianeta.
Anzi, la critica in alcuni passaggi si mostra anche più feroce, perché si estende al passato più lontano della storia degli uomini, con una riuscita mescolanza di piani temporali. L’ambiente è sempre quello di un bar, ma è un altro locale rispetto a quello cui siamo soliti prendere parte. In questo nuovo ambiente si avvicendano personaggi della nostra contemporaneità (tra cui i nostri due mesti rivenditori di scherzi di carnevale) e personaggi storici, soldati in costume guidati dal sovrano svedese in marcia verso il nemico russo. Alcuni soldati, entrando nel locale, vedono le donne e le cacciano. Poi vedono un uomo che gioca alla slot machine, ragion per cui ritengono di doverlo punire con delle frustate. Infine, gli stessi uomini allontanano tutti gli altri avventori per far spazio all’arrivo del proprio sovrano, stanco e assetato.
Ci sono poi altre scene che raffigurano un laboratorio con esperimenti (crudeli) su una povera scimmia incatenata; e un’altra ancora in cui si vedono colonizzatori che spingono uomini di colore all’interno di una prigione di metallo di forma cilindrica con tubi e corni alle pareti circolari. Il fuoco poi appiccato ucciderà gli uomini dentro quest’enorme cilindro ruotante mentre un gruppo attempato di aristocratici assisterà alla scena dalla finestra di un palazzo, ascoltando le urla strazianti degli schiavi trasformarsi in suoni attraverso tubi e corni.
Anche queste sono allegorie di determinati aspetti della nostra società, dei danni, delle ingiustizie e della terribili atrocità perpetrate in nome del progresso: le repressioni sociali (contro donne e il gioco d’azzardo), le disparità sociali, i genocidi del colonialismo. Tutte eredità della nostra storia.
È tanto il materiale, in conclusione, che il film vuole mettere in luce. E forse da un punto di vista questo nuoce alla sua stessa scorrevolezza, al dipanarsi delle sue storie. Tuttavia, nonostante ciò e forse in merito di ciò, la pellicola si presenta come un’opera assolutamente straordinaria, capace di coniugare l’assurdo con la ripetitività, ciò che non ha senso con ciò che invece ha profondissime ragioni antropologiche e motivazioni sociali, da ritrovarsi nella storia e nella psicologia della comunità umana. Tanto vale vederlo, questo film, anche se l’impatto che se ne ricava alla fine sarà pur sempre terrificante. Perché solo scuotendo le coscienze, infine, si riesce a trasmettere un messaggio. Quello stesso messaggio che, giustamente, i giudici veneziani hanno saputo cogliere con intelligenza e spirito critico.

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