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Intervista a Ilaria Parlanti: viaggio tra dolore e speranza e la scoperta della resilienza attraverso la scrittura

Ilaria Parlanti, autrice e sceneggiatrice, è nata nel 1997 in provincia di Pistoia. La sua infanzia è stata segnata dalla sindrome di Jarcho Levin, che l’ha portata a trascorrere molto tempo tra il suo paese natale e Parigi, dove riceveva le cure necessarie. Nel 2017 è stata inclusa nell’Enciclopedia della poesia italiana contemporanea della Fondazione Mario Luzi. Ha diretto due cortometraggi di successo nel 2019 e ha debuttato con il romanzo “La verità delle cose negate” nel 2021: Ilaria Parlanti esprime un legame profondo con la sua esperienza personale, trasformandola in una narrazione potente. Il suo secondo lavoro, “Parigi è stata uccisa“, approfondisce ulteriormente questo viaggio, offrendo una prospettiva intima sulla città. Attraverso la sua scrittura Ilaria Parlanti esplora temi come dolore, resilienza, speranza e accettazione: con questa intervista, proviamo a conoscere un po’ di più questo straordinario percorso interiore.

Nel tuo primo romanzo, “La verità delle cose negate”, hai tratto ispirazione dalla tua esperienza personale; potresti raccontarci qualcosa sulla tua volontà e capacità di trasformare questi eventi vissuti in narrativa?
«Quando ho iniziato a scrivere il romanzo, non avevo idea che avrei tratteggiato le tematiche e il genere che poi mi avrebbe accompagnato per gli anni successivi. Non sapevo di stare coltivando nel solco dell’autobiografismo, che c’era una tradizione precedente ai miei sforzi, e addirittura saggi che ne discutevano e delineavano i punti salienti per scrivere un romanzo autobiografico di valore. Il tutto è nato da una volontà personale: quella di strappare gli eventi che mi hanno reso la persona che sono dall’oblio, dall’indeterminatezza della memoria, dalla paura, anche, che quei ricordi che conservavo così bene nella mente con il tempo potessero smaterializzarsi e perdere di vividezza. Volevo che Parigi, la mia Parigi, rimanesse in vita e non potendo contare sui miei limiti umani ho utilizzato la sola cosa che permette di cristallizzare un pensiero: l’arte della parola. Sulla memoria ci sarebbe molto di cui parlare, ma grandi scrittori lo hanno fatto, in modo più approfondito e più tagliente, prima di me. Per cui, taccio. Dico solo che la grande possibilità di rievocare un magma di ricordi e di spunti ripresi dalla memoria personale, diversissima da quella collettiva anche familiare, mi ha permesso di far entrare la fiction all’interno di esperienze realmente vissute. Tutto ciò che ho provato, toccato e realizzato è stato riformulato a posteriori, in un momento della mia vita in cui Parigi era lontana, ma avevo la volontà di tenerla sempre nel cuore (ahi, che sentimentalismo!). Ho rielaborato, per salvare forse la mia privacy, non saprei dirlo, per mantenere una sorta di intimità a quel dolore che mi ha accompagnato per anni. Penso anche che il ricordo sia materiale malleabile, io non penso di essere accurata in rievocare ciò che è successo davvero, ma ciò che credo sia successo in base alle emozioni con cui lo filtro nel momento presente. Quello che so di affermare con certezza è che, sebbene non abbia detto la verità dei fatti, ho espresso sicuramente la verità del cuore.»

Isabella, il personaggio principale di “La verità delle cose negate”, affronta un passato che influenza profondamente la sua vita; in che modo credi che i lettori possano identificarsi con la sua lotta per il perdono e l’accettazione?
«La parabola che Isabella segue nel romanzo è profondamente radicata in quella che mi ha toccato personalmente negli anni della crescita e poi degli inizi della vita adulta. Credo che il passato ci renda le persone che siamo e, nonostante tutto il dolore e le estreme conseguenze che esso porta con sé, non vorrei mai cancellare quella parte della mia vita, come in fondo non vuole Isabella, sebbene ad alta voce non lo voglia ammettere. Ho avuto enormi difficoltà a riconoscermi come “disabile”. Per la persona che sono, le etichette mi stanno strette. Però ho capito, con il tempo e buona dose di fallimenti, che non potevo nemmeno considerarmi alla stregua di un normodotato, perché io ho avuto – e ho tutt’ora – ostacoli ben più evidenti da superare. Isabella è una donna che cerca la rinascita, il risorgere dalle proprie ceneri. Si trova ad un’impasse, un punto di stallo: proseguire con la sua comfort zone, la vita come l’ha sempre conosciuta, o sradicare tutto, tuffarsi nell’ignoto, e diventare davvero la persona che vuole essere? Il romanzo parla anche di questo: dell’importanza dei cambiamenti. Credo che in questa parte un lettore possa aver compiuto la stessa esperienza: quando le cose non ci vanno più bene, o moriamo dentro o saltiamo nel buio, cambiamo. L’accettazione è la verità di quello che ci ripetiamo in noi stessi. Senza aver interiorizzato, non possiamo veramente lasciarci alle spalle il dolore e renderlo un’occasione per ridirezionarci. Penso che cambiare direzione, nella vita umana, sia fondamentale. Per evitare la noia e grandi rimorsi.»

La tua seconda opera letteraria, “Parigi è stata uccisa” presenta Parigi in un modo molto personale e intimo. Puoi parlarci di come hai avuto l’idea, e di come sei riuscita a renderla letteratura?
«“Parigi è stata uccisa” è la mia seconda silloge di poesie, dopo “Bisbigli d’inchiostro”, una raccolta che pubblicai a quindici anni e che ora, fortunatamente (bei ricordi, ma pessime liriche!) è fuori commercio. La poesia è sempre stata il mio primo amore, la decisione di diventare un’autrice e inseguire questo grandissimo sogno nasce alle scuole medie, quando nella lezione di italiano iniziammo a scoprire le opere in poesia degli illustri autori nostrani. L’idea di raccogliere le liriche che avevano come tema Parigi e le sue trasformazioni è nata moltissimi anni fa, insieme ai primi abbozzi di poesie, quando ero una liceale. Molte sono nate sui banchi di scuola, quando la cosiddetta ispirazione (a cui adesso non credo più) faceva breccia nella mente e non mi rimaneva altro che riempire le costole dei libri con i miei scarabocchi. La verità è che il pensiero su Parigi, da anni a questa parte, è stato ossessivo, qualcosa che non mi ha mai lasciato, mi turba l’inconscio di notte e la coscienza attiva di giorno. Non voglio dimenticare. Vorrei che il mio dolore non sia stato vano, ma un’occasione, per altri, di condividere una parte della vita, di riconoscersi, di sentirsi meno soli. Scrivevo e scrivo per scacciare la solitudine. Il rapporto con il lettore è forse l’unica amicizia sincera che perseguo. Così, insieme ad altre occasioni di rapporti umani e di fortuna (che ci vuole sempre), ho dato origine a questa raccolta. Un sogno lungo anni, per dire quanta maturazione ci vuole prima di esporre un testo al proprio massacro. Ma felicissima che ora sia là fuori, nel mondo.»

Entrambi i tuoi lavori esplorano temi di dolore e resilienza. Come hai bilanciato questi temi con la speranza e la guarigione nella tua scrittura, e c’è un messaggio centrale che speravi di comunicare attraverso le tue opere?
«Nelle mie opere, tutto avviene molto per motivi egoistici. Volevo autoassolvermi da quel peccato originale che è stato il non saper nemmeno nascere uguale a tutti gli altri. Nell’infanzia, ma anche nell’adolescenza, portavo in me tutto il dolore del mondo, del mio mondo, perché mi ritenevo responsabile di questa nascita infausta. Poi ho studiato la genetica, è vero, ma le credenze che si hanno da bambini riusciremo mai a distruggerle del tutto? Sapevo però di non voler morire affogata nel dolore e allora ho iniziato la mia personale ricerca di dio. Ho scandagliato le motivazioni della fede e scoperto che motivi non ne ha. Ho cercato, ho chiesto, ho taciuto, ho sentito. Ma sono arrivata comunque a non sapere, come Euripide. Dio l’ho cercato, ma non l’ho (ancora) trovato. La ricerca non è stata vana, perché mi ha messo sulla strada della speranza, di quella luce in fondo al tunnel, se mi permettete di usare un cliché immaginativo. La scrittura ha avuto una parte enorme in questo lavoro, perché io conosco i miei pensieri solo se li leggo su carta. Scrivere mi ha permesso di conoscere me stessa, nel bene e nel male. E in tutte quelle colpe che mi davo, che forse non erano nemmeno mie del tutto, ho trovato anche dei lati belli, quelle qualità che ti fanno dire: “Forse non sono una cattiva persona”. Quello che vorrei lasciare ai miei lettori è il concetto che per quanto un dolore sia grande, meglio sentire quella profonda tristezza, che non sentire niente. Il vuoto mi fa paura, il vuoto di spazio, di senso, di tempo. Essere vacui, lasciare la terra così come siamo venuti. Se sono nata polvere, che almeno rimanga quella alla mia morte. E poi, un’altra grande lezione che ho imparato: siamo immersi nella solitudine, solo se alimentiamo lo sguardo a non vedere. Le corrispondenze sono parte del mondo, della vita. Siamo come fili d’erba su uno stesso prato, cito Wittman. Siamo soli, se non vogliamo vedere le sofferenze dell’altro. L’abitudine al dolore permette di creare relazioni che andranno al di là. Al di là di cosa, non lo so, da agnostica. Ma credo che qualcosa ci sia.»

Come emerge dai tuoi libri, la tua scrittura è piena di sincerità, perché parte da esperienze concrete e vissute, ma lo scrivere è anche una tua dimensione personale, è connaturato nel tuo essere. Dove ti porterà, quindi, la scrittura in un prossimo futuro?  
«Questa è una domanda molto difficile, perché alla scrittura chiedo tantissimo: la possibilità di redenzione, di salvarmi dal naufragio dell’io, anche dalla sua idealizzazione. Posso dire che questo è un momento molto prolifico. Sto scrivendo racconti, che hanno la fortuna di trovare casa su riviste letterarie, e poi sto lavorando alacremente al mio secondo romanzo. Non voglio dire molto su questo progetto perché è ancora in fase embrionale e potrebbe uscirne lo schifo cosmico (farò il possibile per evitalo). Quello che so è che la scrittura mi porta su percorsi inimmaginabili, ho incontrato persone stupende (tu sei fra questi) che mi sostengono e mi vogliono bene e di più non posso chiedere. Una ragazza, disabile, sulla ventina, che ha conosciuto ospedali su ospedali, e ora si ritrova a parlare della cosa che più ama al mondo, l’arte, che cosa potrebbe chiedere di più di incontrare e parlare con i propri lettori? Credo che questa sia la magia dell’essere umano e della scrittura in sé: creare dei ponti, dei collegamenti, delle assonanze. Non voglio nemmeno sapere dove mi porterà. L’importante è imparare a godersi il viaggio. Devo crescere ancora, devo mettermi in ascolto. Ma so che senza di voi, non andrei da nessuna parte.»

Ilaria Parlanti ci ricorda che la scrittura è un viaggio che rivela il potere delle connessioni umane. In un mondo che può sembrare isolato, le sue opere creano ponti e trovano assonanze tra le esperienze dei lettori. Mentre guarda al futuro, attendiamo con grande interesse le nuove storie che emergeranno dalla sua inarrestabile passione per la parola scritta, augurandole di proseguire il magnifico percorso creativo.

Intervista a Ilaria Parlanti di Sergio Chierici